lunedì 28 giugno 2010

NAPULE MILLE CULURE


Ridono, le ragazzine. Napoli, esterno giorno, Mergellina: un gruppetto di ragazzini adolescenti aggredisce due filippini che passano di lì. Uno sgambetto cattivo, un labbro rotto, gli insulti. Fanno i grossi, minacciano. E loro, le loro ragazze, giù a ridere. Poi però i filippini se ne vanno con l’idea di sporgere denuncia e allora la ghenga non ride più, parte la caccia. Arrivano le minacce: “Se ci denunciate vi tagliamo la testa”. E le botte: pugni e calci.

Nella cronaca, i ragazzini che scimmiottano i grandi nel controllo del territorio si beccano l’appellativo di baby gang, l’episodio è una “bravata”, un delitto del “branco”. Resta tutto confinato nella retorica dell’età ingrata e della noia e dei disvalori che ammorbano le coscienze.
Eppure qualcosa dovrebbe far suonare un poco d’allarme, nella Napoli rossa del fuoco delle molotov che arsero i campi rom di Ponticelli.

In quella azzurra, o nero vestita, che da destra cavalca l’immigrazione per interesse o mero calcolo elettorale. Come Pietro Diodato di AN, che in via dell’Avvenire incitava alla cacciata degli immigrati e intanto si interessava alla compravendita immobiliare di quegli stessi palazzi. Accadde tra l’estate e l’autunno del 2008 in quel ghetto nel ghetto che è Pianura.

C’è la Napoli nerissima e rasata che sempre nel 2008 se la prende con un ragazzo italiano di origine etiope al grido di “negro di merda”. Quella incognita dell’avvertimento in stile vodoo-partenopeo al Museo d’arte contemporanea di Casoria. Quella incolore dei caporali che li usa come manovalanza a basso costo, quella mimetica che li assolda per i suoi traffici criminali.

C’è per fortuna di tutti anche la Napoli della Afro-Napoli United e della United Colors of Napoli, che sui campi minori giocano a calcio in formazione arcobaleno.

Mille Napoli diverse perché sul corpo dei migranti, ossia i più poveri tra i miseri, passa il controllo del territorio. Meglio di tante parole, lo dice la canzone, che dopo Napule è mille culure fa: Napule è mille paure.

A.B.

Immagine dalla Rete

martedì 22 giugno 2010

SE SEI BELLO TI TIRANO LE PIETRE

Capita a Roma caput mundi, che un ragazzino autistico sia costretto a subire angherie, soprusi e violenze. A scuola, non per strada. Non vittima del bullismo, bensì dell’insegnante, che per tenerlo calmo gli lanciava il banco contro, che per non farlo muovere gli si sedeva sulle ginocchia.

Già, l’autismo. Quello interpretato da Dustin Hoffman in Rain Man e quello raccontato da Mark Haddon ne Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte. Ma anche quello che rende impossibile comunicare con il tuo vicino di banco, che impedisce a un ragazzino di rincorrere il pallone e i suoi amici, che rende odiosa e faticosissima per un’insegnante la gestione di una classe elementare, che subordina l’interazione a una serie di riti e a una routine apparentemente senza senso. Quella brutta bestia lì.

Capita che nella Babele dei linguaggi occorra conoscere più lingue, per entrare in relazione con tutte le persone; e non dimenticare che una relazione può anche essere silenziosa. In fin dei conti, se tu non sai “stare” in classe e io non so tollerare che in classe non ci sai stare, abbiamo entrambi un limite che coincide con il nostro punto di incontro e che diventa un problema nella lingua franca dello stare insieme.

Troppo facile criticare la riforma della scuola, la Gelmini, il basso livello delle offerte formative (per chi, domani, dovrà formare a sua volta) e i tagli economici. Un'attenuante, forse, ma non certo un alibi. L’alibi non farebbe che rinforzare lo stigma contro cui il pensiero del fare assieme si batte, quello che ti fa allontanare il diverso, anche se ha 8 anni, quello che non ti fa entrare in relazione con lui, quello che copre di silenzio assordante e costringe alla marginalità. Quello che lascia un’insegnante senza strumenti per gestire le fatiche, l’impreparazione, le frustrazioni di una “comunicazione a senso unico”.

Capita altrove, invece, che pazienti psichiatrici e persone con disagio psichico facciano i volontari per assistere disabilli, crescendo insieme e aiutandosi, ognuno con la propria lingua, imbastardita dai termini di una relazione che sembrava impossibile.

L.C.

Immagine dalla Rete.

martedì 8 giugno 2010

MAMMA ROMA
















Le brillano gli occhi. E sorride. Anzi, ride. Proprio come un'italiana quand'è felice. Eppure racconta cose terribili. Cose che avrebbero steso Maciste. Un po' hanno steso anche lei, a dire il vero. Un tempo. Ora è passato. Ora si può raccontare. Soprattutto perché ora Emanuela Valente, la protagonista di un episodio di mobbing clamoroso e poi di un calcio nel sedere in un certo senso pure più clamoroso, ha trovato un orecchio che l'ha ascoltata: quello di Concita De Gregorio. Concita, direttore dell'Unità, ha acconsentito a pubblicare
la storia di Emanuela. Da allora molti sembrano interessarsi a lei e al suo "caso". Emanuela, in effetti, si è macchiata di una colpa gravissima: ha avuto un figlio, cosa che le è costata la carriera, poi, addirittura, un secondo, e con questa seconda ignominia si è giocata il posto. A cacciarla, prima un onorevole, si fa per dire ma così si chiamano: la Valente aveva lavorato sette anni come assistente parlamentare, districandosi tra interrogazioni, dispacci della Camera e del Senato. Altro giro, altro regalo: Emanuela è brava e, a Roma, c'è chi l'ha notata. La reclutano per organizzare un convegno: donne e lavoro, tema che le calza come un guanto. L'iniziativa è un successo, partecipano donne di ogni schieramento politico, tutti sembrano felici e contenti. Macché, Emanuela si adopera, molto, ma non abbastanza, secondo i leader, soprattutto donne va sottolineato: deve essere più disponibile e una donna con famiglia non lo è abbastanza. Ergo Emanuela viene messa nuovamente alla porta. In barba ai discorsi appena tenuti al convegno.
Normale, in un paese dove ministre mamme senza arte né parte ritengono il congedo di maternità un privilegio. Sono le reazioni della Casta, si potrebbe commentare: tutte uguali. O quasi. Fa eccezione, per esempio, Manuela Ghizzoni, deputata Pd, che in questo post sintetizza e commenta quel che della Valente pensano donne che non siedono in Parlamento né, tantomeno, in Consiglio dei Ministri:
"Non capisco perché una donna che ha deciso di diventare madre pretenda poi di continuare a lavorare".
"Non capisco perché una donna che vuole lavorare decida di avere dei figli".
"Non capisco perché una donna che ha dei figli li lasci a casa con una babysitter".

"Non capisco perché andare a lavorare quando poi tutto lo stipendio viene preso dalle tate e i figli crescono senza una madre".
Anch'io non capisco. Un mucchio di cose. Per esempio: non capisco dove sia finita la solidarietà femminile. Anzi, no, non capisco dove sia finita la solidarietà tout court.
A furia di pedate Emanuela se ne è andata. Dal primo, dal secondo lavoro, infine dall'Italia. Ora di figli ne ha tre, ma la famiglia ha lasciato Roma: i cinque vivono a Parigi. E il sorriso, guarda caso, è tornato.

P.V.

(nell'immagine, dalla rete, Lupa Capitolina, scultura in bronzo prob. III sec. A.C.; gemelli aggiunti dal Pollaiolo nel XV sec.; Musei Capitolini, Roma)

martedì 1 giugno 2010

ROMA CITTA' APERTA (MA NON AI FROCI)














E' rischioso essere gay nella capitale d'Italia e della cristianità: nel 2005, in un parco del quartiere di Montesacro fu ucciso in modo atroce, perché omosessuale, Paolo Seganti. E numerose negli ultimi anni sono state le aggressioni di matrice omofoba denunciate: nove solo da settembre scorso.
L'ultima pochi giorni fa: un ragazzo di 24 anni è stato picchiato a sangue in via Fagutale. Tornava da una festa al Coming Out (un locale di S. Giovanni in Laterano, la Gay Street romana già dal 2007), quando è stato aggredito a pugni e calci da quattro o cinque giovani, parola d'ordine: “Frocio di m...”.
Dopo l'aggressione, privo di conoscenza e col volto sanguinante, il ragazzo è stato soccorso da due amici: che in un bar nei paraggi si sono visti negare persino dei fazzoletti di carta per tamponare il sangue. Ricoverato d'urgenza in ospedale, il ragazzo ha riportato tagli e contusioni al volto che si è temuto potessero fargli perdere un occhio.
Ora rivolge un appello al Governo perchè, al di là dei proclami di condanna, realizzi al più presto una legge anti-omofobia.
(Nell'autunno 2009 la deputata PD Paola Concia aveva presentato alla Camera una proposta di legge volta a "rendere più aspre le pene per i reati commessi per odio verso omosessuali, lesbiche e transessuali", analogamente a quanto avviene per i reati di stampo razzista. Il disegno, avversato dal Vaticano, fu respinto da UDC, Lega e -tranne eccezioni- PDL. Votò contro anche Paola Binetti, allora deputata PD, poi passata all'UDC).

F.V. (e grazie Rita)

(Immagine dal blog Attualizzando
http://attualizzando.wordpress.com/2009/09/02/bombe-antigay-a-roma/)